de/di Antonio Rivero Taravillo
(trad. Marcela Filippi)
I
Va siendo hora ya de hablar de mí:
dejar en paz las cosas, tan ajenas
y socorridas
lo mismo que una tienda de disfraces
para los tímidos,
los timoratos,
los ciclotímicos,
y mirar hacia adentro como un pozo
del que sacar los cubos de los versos,
su légamo y parásitos, su sed.
Esa agua estancada, eso soy yo,
el río detenido por la corta,
el camino atorado por las rocas
de todos los derrumbes interiores.
Paseo mi cadáver, el trofeo
del muerto derrotado en la victoria
de todo lo que lucha contra mí
bajo mi mando.
No hay nada en que no haya fracasado
como lluvia que cae para nadie
o arbusto que defiende con espinas
su nada contra todo y para siempre.
II
Me detengo a tomar aire de nuevo.
¿Será posible acaso dar sentido
mucho tiempo seguido a lo que pesa
con el fardo que es uno contra sí?
¿Hay pecho que resista ser el pecho
que aguanta su presión sobre sus vísceras,
la suma de miserias que organiza
un sistema que avanza a disolverse?
Los años, colecciones de despojos,
se ensartan como cuentas que se ciñen
al cuello que no logra respirar.
Siento que mi atmósfera penetre
en las de otros,
quienes tengo más cerca,
y que haga su aire irrespirable
como el suyo hace el mío irrespirable.
Irrespirable.
III
Va siendo hora ya de hablar de mí
por una vez sin velos en la lengua
ni metáforas finas y logradas,
sin objetos ni espejos exteriores;
con el único brillo
del torpe bisturí del cirujano
que opera otros cadáveres, no el suyo,
porque él está ya muerto, y bien lo sabe,
y son las incisiones esa firma
que rubrica el silencio
mientras lava sus manos
con un chorro que mancha y jamás borra
su crimen, que es el mío; este suicidio
de darse vida uno, persistiendo
en el horror.
E' tempo di parlare di me:
lasciare in pace le cose, così estranee
e pratiche
come un negozio di maschere
per i timidi,
i timorati,
i ciclotimici,
e guardare dentro come un pozzo
da cui estrarre i cubi dei versi,
la loro poltiglia e parassiti, la loro sete.
Quell'acqua stagnata, questo sono io,
il fiume immoto dal disboscamento,
la via ostruita dalle rocce
da tutti i crolli interni.
Passeggio il mio cadavere, il trofeo
del morto sconfitto nella vittoria
di tutto ciò che lotta contro di me
sotto il mio comando.
Non c'è nulla in cui non abbia fallito
come pioggia che cade per nessuno
o arbusto che difende con spine
il suo nulla contro tutto e per sempre.
II
Mi fermo a prendere aria di nuovo.
Sarà possibile dare un significato
per molto tempo di seguito a ciò che pesa
con il fardello che si è contro se stessi?
C'è petto che resista ad essere il petto
che regga la pressione sulle proprie viscere,
la somma di miserie che organizza
un sistema che avanza verso la dissoluzione?
Gli anni, collezioni di resti,
sono legati come grani
al collo che non riesce a respirare.
Sento che la mia atmosfera penetra
in quella degli altri,
di chi ho più vicino,
e che renda la loro aria irrespirabile
come la loro rende irrespirabile la mia.
Irrespirabile.
III
E' tempo ormai di parlare di me
per una volta senza veli sulla lingua
né fine e riuscite metafore,
senza oggetti né specchi esterni;
con l'unico luccichio
del goffo bisturi del chirurgo
che opera altri cadaveri, non il proprio,
perché lui è già morto, e lo sa bene,
e le incisioni sono quella firma
che il silenzio rubrica
mentre lava le sue mani
con un getto che macchia e non cancella mai
il suo crimine, che è il mio; questo suicidio
di darsi la vita, persistendo
nell'orrore.
(De Luna sin rostro, Colección La cruz del sur. Pre-textos editorial, 2023)
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