de/di Angelina Gatell
(trad. Marcela Filippi)
A Carlos Álvarez, que me sonríe a través
del cristal del locutorio de la cárcel de Carabanchel.
Donde aquel sueño estuvo
ya sólo queda un rastro
de su fulgor.
Una luz vacilante
que fluye
difícilmente
entre el ayer gozoso y la ceniza
que ahora, en este lado del invierno,
impregna nuestros pechos, los mancilla.
No la toques,
te quemaría las manos
como una brasa.
Dejemos
que se vaya apagando
y nos deje su espacio
vacío junto al alba,
junto al diario milagro
de la luz.
Y esperemos.
Nada termina. Acaso
germine la semilla
en el hueco profundo
de nuestro desamparo
y otra vez en la noche
zigzaguee el relámpago
efímero y hermoso
de la esperanza.
Sólo por eso,
con sufrimiento, canto.
A Carlos Álvarez, che mi sorride attraverso
il vetro della sala dei colloqui del carcere di Carabanchel.
Dove ci fu quel sogno
rimane solo una traccia
del suo fulgore.
Una luce vacillante
che fluisce
difficilmente
tra il gioioso ieri e la cenere
che ora, da questa parte dell'inverno,
impregna i nostri petti, li macchia.
Non toccarla,
ti brucerebbe le mani
come una brace.
Lasciamo che si vada
spegnendo
e ci lasci il suo spazio
vuoto insieme all'alba,
insieme al quotidiano miracolo
della luce.
E aspettiamo.
Nulla finisce. Forse
germinerà il seme
nella profonda cavità
del nostro abbandono
e di nuovo di notte
zigzaghi il fulmine
effimero e bello
della speranza.
Soltanto per questo,
con sofferenza, canto.
(De Sobre mis propios pasos. Bartebly Editores)
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