de/di Olalla Castro
(trad. Marcela Filippi)
En el nombre de la abeja —
y de la mariposa —
y de la brisa — ¡amén!
Cuando paso los dedos por los pétalos miro de otra
manera, igual que veo distinto cuando escribo
y bordeo las cosas con la lengua. En mi cua
derno, anoto los detalles de cada planta con la
precisión que exige la botánica. Me visto de
abeja o mariposa: intento que mis yemas se
posen tan suaves que la flor no sepa qué in
secto la ronda. Que remuevan el polen y de
ellas dependan la semilla y el fruto.
Me lleno los ojos de lirios tigre y de violetas antes
de regresar al dormitorio. De nada serviría
arrancar los tallos hasta formar un ramo, lle
varlos conmigo, fingir que cabe el campo en
una habitación. Escribir consiste en invocar lo
que no está, en conjurar el fantasma de aquello
que se ama. El centro del poema es siempre
un hueco: lo ausente levantándose para decir
su falta.
Vengo de una familia donde los hombres juntan las
manos antes de comer y dan las gracias a Dios
susurrando palabras. Vengo de una familia
donde los hombres extienden las manos antes
de dormir y dan la espalda a Dios susurrando
palabras. Qué fácil limpiar el pecado como
quien restriega jabón sobre la mancha, como
quien enjuaga con agua la espuma de la culpa.
Papá compraba libros que me pedía después
que no cogiera. «Las señoritas no leen esta
clase de cosas», decía. Nunca entendí por qué
necesitaba mostrarme primero lo que me iba
a esconder, poner algo a mi alcance y después
alejarlo.
También hay un prado en el centro de los nombres.
También escribir es ser insecto: volar alrededor
de las flores, esparcir sus semillas por la
tierra. Hay quien no entiende que me guste
vestirme de blanco, que me sienta más libre
cuanto más dentro (del pecho, del cuarto, del
cuaderno). Quisiera ser el retrato que se lleva
en el interior del guardapelo. Que bastase una
mano para quedarme a oscuras.
In nome dell'ape—
e della farfalla
e della brezza – amen!
Quando passo le dita attraverso i petali guardo in un altro
modo, così come quando scrivo e lambisco le cose
con la lingua vedo diversamente. Nel mio quaderno,
annoto i dettagli di ogni pianta con la
precisione che la botanica esige. Mi vesto
da ape o da farfalla: cerco che i miei polpastrelli
si posino così leggeri affinché il fiore non sappia
quale insetto gli ronza intorno. Che rimuovano il polline
e da essi dipendano il seme e il frutto.
Mi riempio gli occhi di gigli tigrati e di viole prima
di tornare in camera. Sarebbe inutile
strappare gli steli per comporre un mazzo,
portarli con me, fingere che i campi stiano
in una stanza. Scrivere consiste nell’invocare ciò
che non c'è, nello scongiurare il fantasma di ciò
che si ama. Il centro della poesia è sempre
un incavo: ciò che è assente e si alza per dire
che non c'è.
Vengo da una famiglia in cui gli uomini uniscono le
mani prima di mangiare e ringraziano Dio
sussurrando parole. Vengo da una famiglia
dove gli uomini stendono le mani prima
dormire e voltano le spalle a Dio sussurrando
parole. Com'è facile pulire il peccato
come chi strofina sapone sull'onta, come chi
lava via con acqua la schiuma della colpa.
Papà comprava libri che mi chiedeva poi
di non prendere. «Le signorine non leggono questo
genere di cose», diceva. Non ho mai capito perché
avesse bisogno di mostrarmi prima ciò che mi avrebbe
nascosto, mettere qualcosa alla mia portata e poi
allontanarla.
C'è anche un prato al centro dei nomi.
Scrivere è anche essere un insetto: volare intorno
ai fiori, spargere i loro semi sulla
terra. C'è chi non capisce che ami
vestirmi di bianco, che mi senta più libera quanto
più dentro (al petto, alla stanza, al
quaderno). Vorrei essere il ritratto che si porta
all'interno del medaglione porta ciocche. Che basterebbe una
mano per restare al buio.
(Del libro Las Escritas. XXI Premio de Poesía Vicente Núñez. Deputación de Cordoba Berenice, 2022)
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