lunedì 31 luglio 2017

Un escenario vacío/Uno scenario vuoto
(trad. Marcela Filippi)

“Un escenario vacío
Un libro muerto de pena
Un dibujo destruido
Y la caridad ajena
Un televisor inútil
Eléctrica compañía
La radio a todo volumen
Y una prisión que no es mía
Una vejez sin temor
Y una vida reposada
Ventanas muy agitadas
Y una cama tan inmóvil
Un montón de diarios apilados
Y una flor cuidando mi pasado
Y un rumor de voces que me gritan
Y un millón de manos que me aplauden..”

“Uno scenario vuoto
Un libro morto di pena
Un disegno distrutto
E la carità altrui
Un televisore inutile
Elettrica compagnia
La radio a tutto volume
E una prigione che non è mia
Una vecchiaia senza timori
E una vita riposata
Finestre molto agitate
E un letto così immobile
Un mucchio di giornali affastellati
E un fiore custodendo il passato
E un rumore di voci che mi urlano
E un milione di mani che mi applaudono...”

PATRIA PROFUNDA/PATRIA PROFONDA

de/di Santos Santos Domínguez Ramos
(trad. Marcela Filippi)
Escucha al ángel ángel,
al ángel de alabastro
que mira desolado hacia la piedra
con una mano puesta en su mentón de sombra.
Ungido por la dulce tristeza de los días
y su verdín doliente,
con la otra mano pide silencio al caminante.
Mira la piedra muda:
de ella sube el recuerdo como dicen que sube,
desamparada y sola,
la niebla de los lagos lejanos por la noche.
En la cueva el solsticio suena a flautas y a huesos,
a una música sorda de fósiles en sombra.
Mientras, un hombre sueña
con un lugar de espejos y un corazón de aceite
con vidrios rotos, rostros
y sueña que es un sueño.

Ascolta l’angelo angelo,
l’angelo d’alabastro
che guarda desolato verso la pietra
con una mano posta sul suo mento d’ombra.
Unto dalla dolce tristezza dei giorni
e dal suo muschio dolente,
con l’altra mano chiede silenzio all’ambulante.
Guarda la pietra muta:
da essa sale il ricordo così come dicono che sale,
indifesa e sola,
la nebbia dei laghi lontani di notte.
Nella grotta il solstizio suona a flauti e ad ossa
a una musica sorda di fossili in ombra.
Mentre, un uomo sogna
con un luogo di specchi e un cuore d’olio
con vetri rotti, volti
e sogna che è un sogno


Ditemi com’è un albero/Decidme cómo es un árbol
Marcos Ana, poeta spagnolo deceduto 3 (27/11/2016) giorni fa, fu arrestato all’età di 18 anni dal regime franchista per motivi politici, e rimase in prigione 23 anni. A lui, a questo uomo che non ha mai perso la sua dignità, e non ha mai coltivato l’odio dedico questa mia traduzione all’italiano, dove il poeta nei suoi meravigliosi versi, chiede in modo struggente, di aiutarlo a ricordare come sono lo le cose; i sentimenti, i profumi... La dittatura, non riuscì mai a piegarlo.
Copio qui sotto le parole dello scrittore portoghese José Saramago, che scrisse per lui nel prologo alla sua autobiografia. E vorrei anche osservare che benché si possa subire il fascino di un personaggio (come Fidel Castro) -che sì ha fatto la storia, e ha contribuito a dare un’identità a un continente, senza dubbio -attenendoci alle questioni politiche, tutto andrebbe contestualizzato- era e resterà sempre un dittatore, e in quanto cilena, non posso, e non voglio ignorare, né ora né mai, che una dittatura è pur sempre una dittatura, di qualsiasi colore essa sia, e che i mezzi e gli obiettivi sono sempre i medesimi per privare la gente della proprio libertà. La democrazia, che ha i suoi costi, e le sue falle, è sempre il miglior sistema dove vivere, proprio perché ognuno di noi può scegliere, e se può scegliere, vuol dire che siamo liberi; magari non dai noi stessi , non da quella prigione che è dentro di noi. Spesso siamo infatti, noi i colpevoli di ammirare simboli nefasti, anche a distanza di anni quando il senno del poi, dovrebbe aiutarci a considerare in modo più equilibrato i fatti, e il nostro sentire.
«Ditemi com’è un albero, ditemi com’è la giustizia, non ditemi com’è la dignità. Dite loro com’è un albero, perché il carcere, come un vampiro insaziabile, va suggendo a poco a poco i loro ricordi del mondo esterno, dite loro com’è la giustizia, perché là dove si trovano, tra quattro pareti immonde o davanti al plotone d’esecuzione, essa non è che una caricatura ignobile, una grottesca imitazione, la maschera stessa dell’obbrobrio. Ma non dite loro cos’è la dignità, perché l’hanno conosciuta intimamente, con lei si sono coricati e con lei si sono alzati, hanno mangiato alla sua tavola o le hanno offerto la propria fame, e, ora dopo ora, – affrontando carcerieri e carnefici, stringendo le labbra e i denti sotto gli eccessi della tortura, quegli uomini hanno reinventato la dignità umana nei luoghi in cui, stando al Catone dei criminali, avrebbero dovuto finire per perderla».
«Dicci com’è un albero affinché non dubitiamo che qualcosa nel mondo, fuori da queste mura, continui a combattere contro l’infamia, contro la menzogna, contro la stolta crudeltà dei nemici della vita, dicci com’è e dov’è la giustizia, perché le strappiamo la benda dagli occhi affinché veda, finalmente, a chi, di fatto, è servita, chiunque egli sia; ma non ci dicano com’è la dignità perché lo sappiamo già, perché, perfino quando sembrava non fosse che una parola, noi comprendevamo che si trattava della pura essenza della libertà, nel suo senso più profondo, quello che ci permette di dire, contro l’evidenza stessa dei fatti, che eravamo prigionieri, eppure eravamo liberi».

de/di Marcos Ana
(trad. Marcela Filippi)

Decidme como es un árbol,
contadme el canto de un río
cuando se cubre de pájaros,
habladme del mar,
habladme del olor ancho del campo
de las estrellas, del aire
recítame un horizonte sin cerradura
y sin llave como la choza de un pobre
decidme como es el beso de una mujer
dadme el nombre del amor
no lo recuerdo
Aún las noches se perfuman de enamorados
que tiemblan de pasión bajo la luna
o solo queda esta fosa?
la luz de una cerradura
y la canción de mi rosa
22 años, ya olvido
la dimensión de las cosas
su olor, su aroma
escribo a tientas el mar,
el campo, el bosque,
digo bosque
y he perdido la geometría del árbol.
Hablo por hablar asuntos
que los años me olvidaron,
no puedo seguir
escucho los pasos del funcionario.


Ditemi com’è un albero,
raccontatemi il canto di un fiume
quando si copre di uccelli,
parlatemi del mare.
Parlatemi dell’odore ampio della campagna
delle stelle, dell’aria.
Recitami un orizzonte senza serratura
né chiavi, come la capanna di un povero.
Ditemi com’è il bacio di una donna
datemi il nome dell’amore
non lo ricordo.
Le notti ancora si profumano di innamorati
che fremono di passione sotto la luna
o rimane solo questa fossa?
La luce della serratura
e la canzone della mia rosa
22 anni, già dimentico
la dimensione delle cose
il loro odore, il loro aroma
scrivo a tentoni il mare,
la campagna, il bosco
dico bosco
e ho perso la geometria dell’albero.
Parlo per parlare di argomenti
che gli anni hanno cancellato,
non posso seguire
sento i passi della guardia...
Fine del giorno/Fin del día
di/de Giorgio Caproni
(trad. marcela Filippi)


Quando più sguscia obliquo
il sole su queste strade
ogni cortile ha strane
battaglie, con ingenue grida.

Nel tocco delle campane
c’è ancora qualche sapore
del giubiloso soggiorno;
ma se mi passa accanto
un ragazzo, nel soffio
della sua bocca sento
quant’è labile il fiato
del giorno.


Cuando más se desliza oblicuo
el sol en estas calles
en cada patio hay extrañas
batallas, con gritos ingenuos.

En el toque de las campanas
todavía hay algún sabor
de la jubilosa estancia;
mas si pasa a mi lado
un muchacho, en el soplo
de su boca siento
el fugaz aliento
del día.
Il testamento del poeta
di/de Silvano Agosti
(trad. Marcela Filippi)

Lascio i mie versi a chi li leggerà
le mie carezze ai ladri e agli assassini
e le mie lacrime ad ogni donna sola.

Lascio il mio sguardo a chi crede di aver visto
e i miei sogni a chi non trova pace.

Lascio i sorrisi a una divinità in declino
e a te figlio mio
lascio il mio tempo
lo smisurato tempo di chi vive.


Dejo mis versos a quien los leerá
mis caricias a los ladrones y asesinos
y mis lágrimas a cada mujer sola.

Dejo mi mirada al que cree que ha visto
y mis sueños al que no encuentra paz.

Dejo las sonrisas a una divinidad en declive
y a tí hijo mío
te dejo mi tiempo
el desmesurado tiempo de quien vive.
Revolución de la brisa/Rivoluzione della brezza
(trad. Marcela Filippi P.)

Dos tencas ladronas han vuelto a bajar del manzano a robarle galletitas a los perros. A ellos no parece importarles mucho. Echados sobre la hierba, se preocupan más bien de seguir la rutina humana con la mirada. Escarbo entre viejos cuadernos de notas en busca de textos nunca publicados, frases sueltas, imágenes literarias que nunca utilicé, autores que apunté en un bar con letra borracha. No todo lo escrito me parece hoy relevante. Muchas letras sólo fueron constancias de cicatrices del alma. Mi habitación da a un jardín poco transitado donde crecen sin mayor cuidado encinos jóvenes, camelias ancianas y manzanos en flor. No hace mucho una solitaria gallina se quedó a vivir allí. Digamos que se autoexilió del resto. Nadie se explicó la razón. Durante el día escarbaba entre las flores buscando su sustento. En la noche dormía sobre un taca-taca abandonado, hasta que le expliqué que eso no me parecía lo más adecuado y la expulsé. Entonces ella se fue a dormir bajo unas rosas dentro del mismo jardín. Con el tiempo formó su nido, empolló, sacó sus crías y hoy deambula como oronda emperatriz por ese territorio que ella considera completamente suyo. Nadie osa acercarse pues su fiereza no desmerece ante un mastín. Antes de salir de mi habitación observo todo lo que tengo y no ocupo. Una tele que jamás enciendo, un dvd en el que nunca veo películas, una radio que jamás he sintonizado, un reloj al que nunca he dado cuerda y cientos de libros que nunca han salido de su estantería. Digamos que son meros juguetes de un niño-hombre que ya no juega a nada. Vuelvo al mesón bajo el parrón y ya no recuerdo lo que iba a hacer. Sólo me siento en la silleta y me quedo contemplando la espesa bruma que difumina las montañas. Los altares de mi entusiasmo se suelen llenar de telarañas tras su inauguración. Los ánimos se ametrallan mutuamente dejando un final sin protagonistas. Recuerdo haber escrito una carta donde intentaba explicar ciertas circunstancias dolorosas que contribuyeron a disolver mi antigua familia. No buscaba exculpación, al fin y al cabo a un hijo de puta como yo bien poco le importa que lo crucifiquen con desamor y rumores falsos. Pensaba más bien dejarlo como testimonio de mi huracanado paso por este mundo, clarificar los enredos, los malentendidos, las incomprensiones, y a través de esa precisión narrativa contribuir a que otros aclararan su papel en este teatro de la crueldad humana. Iba bien encaminado, al menos hasta la décima línea. Luego me dije, qué diablos, y concluí sin siquiera un punto aparte. Pero no quería escribir sobre eso. Más bien quería confesar que tengo pensamientos siniestros, hasta asesinos, con los servidores de internet. Hijos de perra que se apropian del aire y te envían mensualmente una factura por 50 dólares por algo que ni siquiera funciona. Creo que necesitamos una pronta y sanguinaria revolución para recuperar la brisa que trae y lleva los mensajes amigos.

Due tencas ladre sono scese di nuovo dal melo per rubare biscottini ai cani. Questi non sembrano curarsene molto. Stravaccati sull'erba, si preoccupano piuttosto di seguire il trantran umano con lo sguardo. Frugo tra vecchi quaderni di note in cerca di testi mai pubblicati, frasi sparse, immagini letterarie che non ho mai utilizzato, autori segnati con lettera ubriaca. Non tutto quel che è scritto mi sembra rilevante oggi. Molte cose sono state testimonianze di cicatrici dell’anima. La mia stanza si affaccia su un giardino poco transitato, dove crescono senza molta cura querce giovani, vecchie camelie e meli in fiore. Non molto tempo fa una gallina solitaria rimase a vivere lì. Diciamo che si è autoesiliata da tutto il resto. Nessuno ha saputo mai spiegarselo. Durante il giorno scavava tra i fiori in cerca del suo sostentamento. Di notte dormiva su un biliardino abbandonato, fino a quando le ho spiegato che ciò non sembrava appropriato e la cacciai via. Poi andò a dormire sotto alcune rose nello stesso giardino. Col passare del tempo fece il suo nido, covò, portò in giro la sua figliata, e oggi deambula come un’ imperatrice trionfa in quel territorio che considera pienamente suo. Nessuno osa avvicinarsi poiché la sua ferocia, non è inferiore a quella di un mastino. Prima di lasciare la mia stanza osservo tutto ciò che ho e che non uso. Un televisore che non accendo mai, un DVD in cui non vedo mai film, una radio che non ho mai sintonizzato, un orologio che non ho mai caricato e centinaia di libri che non hanno mai lasciato i loro scaffali. Diciamo che sono meri giocattoli di un bambino-uomo che ormai non gioca più a nulla. Ritorno al banco sotto il pergolato d'uva e non ricordo più quello che stavo per fare. Mi siedo soltanto sulla seggiola e rimango a contemplare la spessa bruma che sfuma le montagne. Gli altari del mio entusiasmo spesso si riempiono dopo la loro inaugurazione. Gli animi si mitragliano a vicenda lasciando un finale senza protagonisti. Ricordo di aver scritto una lettera cercando di spiegare certe circostanze dolorose che hanno contribuito a dissolvere la mia vecchia famiglia. Non cerco discolpe, in fin dei conti a un figlio di puttana come me molto poco importa che lo crocifiggano con indifferenza e false dicerie. Pensavo piuttosto di lasciarlo come una testimonianza del mio passaggio burrascoso in questo mondo, chiarire intrecci, equivoci, incomprensioni, e attraverso quella precisione narrativa contribuire perché altri chiariscano il loro ruolo in questo teatro della crudeltà umana. Ero ben orientato, almeno fino alla decima riga. Poi, mi sono detto, che diamine, e ho concluso senza neanche un punto a capo. Ma io non volevo scrivere su questo. Piuttosto volevo confessare che ho pensieri sinistri, perfino assassini, con i server di Internet. Figli di cagna che si impossessano dell'aria e ti mandano una fattura mensile di 50 dollari per qualcosa che nemmeno funziona. Penso che abbiamo bisogno di una rivoluzione rapida e sanguinaria per recuperare la brezza che porta e recapita i messaggi amichevoli.


Tenca: uccello che vive solo in Cile
Victor Hugo (1802-1885)

de/di Claudio Ferrufino-Coqueugniot

(trad. Marcela Filippi) Resulta quizá raro que me encuentre escuchando música de Jim Morrison y que intente escribir acerca de Víctor Hugo, pero, por lo general, los fantasmas de los genios que me perturban se entrelazan. La oscuridad de la calle ayudará a situarme en junio de 1832, en cualquier callejuela sórdida de París, una que como detalle tenga los faroles rotos: a partir del primero y siguiendo el ruido, perseguiré la infantil silueta de Gavroche-Hugo camino de las barricadas. Mi condición de fantasma me salvaguardará de todo riesgo e incluso ¡vaya uno a saber! es posible que mis manos aligeren de balas los bolsillos de los guardias nacionales muertos cerca del mercado. ¿Por qué Gavroche-Hugo? Podría haber sido Valjean-Hugo u otro de “Los miserables”. El escritor deja en cada personaje algo de sí mismo y no me asombraría que a pesar de elegir a uno entre el total, Hugo sintiera un poco de afecto hasta por los miembros del Patrón Minette. No sería de extrañar, repito. La literatura abunda en casos ejemplificadotes. Pienso en Gide empujando al abismo con placer a aquel pajarraco de “Las cuevas del Vaticano”. Volvamos a Gavroche, el hijo de París. Suma de pequeños males, bondad y filosofía, representa el observador más atento de la novela. Al parecer es él el que noche a noche va dictando los párrafos en medio del estruendo revolucionario. Es la experiencia del autor que da saltos y pinceladas donde es necesario. Es Hugo mismo; recorre diariamente las calles y aprehende el mundo en rostros, verbo y geografía; descubre para plasmar el arte. Acude a Gavroche, el pillastre parisién, extraña especie de niño-hombre. Se vale de él para adentrarse en los lugares ocultos y mostrarlos al lector; también para observar los caminos y marcas que la naturaleza ha dejado en el niño de Delacroix; para hallar un atisbo de su propia grandeza en los actos que realiza. Hugo podría proteger a dos infantes desamparados sólo como Gavroche, el soplo de la pureza. A través de este cuerpo se apropiará de aquello que otrora era patrimonio contemplativo de las ratas: los escondrijos; cumplirá las tareas más fantasiosas que su imaginación le permita, ya que no su cuerpo adulto. Muchas veces se desdoblará. Será joven (Mario), o un anciano que restituye al monumento de adoquines apilados su bandera -en el zaguán de la muerte- (Jean Valjean) ¡Oh, éxtasis romántico! El hombre, sobrio, hará sonreír la pluma narradora del pequeño. La sangre ha de palpitar en los costados de su frente. Después matará con placidez al ángel creado. La violencia de la muerte es un detalle nimio ante el sarcasmo… Si acabo de caer, la culpa es de Voltaire; si una bala me dio la culpa es… (de Rousseau) … que todo es como el agua mansa, agua que cubre a Gilliatt en “Los trabajadores del mar”; fin sin grito, como agua de vaso. Muerto Gavroche, en quien se centró un momento, Hugo se diversificará otra vez. Insuflará vida a los que no perecieron. Su fugaz aventura nos deja el sabor del vino fino en la boca. Y no hay por qué ponerse tristes. Estoy seguro, de existir Dios, que Hugo se sienta de un lado y Gavroche del otro, mal les pese a María y a Jesús.



Può risultare forse strano che mi trovi ad ascoltare musica di Jim Morrison e cerchi di scrivere su Victor Hugo, ma, in generale, i fantasmi dei geni che mi perturbano si intrecciano.

Il buio della strada aiuterà a collocarmi nel giugno del 1832, in qualsiasi vicolo sordido di Parigi, uno che come dettaglio abbia i lampioni rotti: cominciando dal primo e seguendo il rumore, inseguirò la sagoma infantile di Gavroche-Hugo verso le barricate. La mia condizione di fantasma mi salvaguarderà da ogni rischio e anche, vai a sapere! è possibile che le mie mani allegeriscano le tasche dai proiettili delle guardie nazionali morte vicino al mercato.

Perché Gavroche-Hugo? Avrebbe potuto essere Valjean-Hugo o un altro dei "Miserabili". Lo scrittore lascia in ogni personaggio qualcosa di sé e non mi meraviglierebbe che, nonostante la scelta di uno nel totale, Hugo sentisse un po' di affetto persino per i membri della Patron Minette. Non sarebbe sorprendente, lo ripeto. La letteratura abbonda di casi esemplificativi. Penso a Gide spingendo nell'abisso con piacere quell'uccellaccio de "I sotterranei del Vaticano".
Torniamo a Gavroche, il figlio di Parigi. Somma di piccoli mali, bontà e filosofia, rappresenta l'osservatore più attento del romanzo. A quanto pare è lui che notte dopo notte detta i paragrafi in mezzo al fragore rivoluzionaro. E' l'esperienza dell'autore che dà salti e pennellate dov'è necessario. E' lo stesso Hugo; percorre quotidianamente le strade e impara il mondo nei volti, verbo e geografia; scopre per plasmare l'arte. Ricorre a Gavroche, il pilastro parigino, strana specie di bambino-uomo. Si serve di lui per addentrarsi nei luoghi nascosti e mostrarli al lettore; ma anche per osservare le strade e i segni che la natura ha lasciato nel bambino di Delacroix; per trovare un barlume della propria grandezza nelle azioni che compie. Hugo potrebbe proteggere due infanti abbandonati proprio come Gavroche, il soffio della purezza. Attraverso questo corpo s'impadronirà di ciò che altrimenti era patrimonio contemplativo dei ratti: i nascondigli; adempierà i compiti più fantasiosi che la sua immaginazione gli permetterà, al contrario del suo corpo adulto. Molte volte si sdoppierà. Sarà giovane (Mario), o un anziano che restituisce al monumento di sampietrini ammassati la sua bandiera -sulla soglia della morte- (Valjean) Oh, estasi romantica!

L'uomo, sobrio, farà sorridere la penna narratrice del piccolo. Il sangue deve palpitare ai lati della sua fronte. Poi ucciderà con piacere l'angelo creato. La violenza della morte è un dettaglio insignificante dinnanzi al sarcasmo ...

Se sono appena caduto,
la colpa è di Voltaire;
se un proiettile mi ha colpito
la colpa è ... (di Rousseau)

... che tutto è come l'acqua cheta, acqua che copre Gilliat ne "I lavoratori del mare"; fine senza grido, come acqua di bicchiere..

Morto Gavroche, nel quale si è centrato un momento, Hugo si diversificherà di nuovo. Insufflerà vita a coloro che non sono periti. La sua fugace avventura ci lascia in bocca il sapore del vino raffinato, e non c'è da essere tristi. Sono sicuro, se Dio esiste, che Hugo siede a un lato e Gavroche all'altro, malgrado il dissenso di Maria e Gesù.

LUCHA DE CLASES CANINA/LOTTA DI CLASSE CANINA

de/di Jorge Muzam
(trad. Marcela Filippi)

Pillín, Cholo, Boby y Terry son los nombres habituales de los perros quiltros nacidos en Chile.
Son los llamados mestizos. Sobrevivientes de mil peleas callejeras, acostumbrados al frío, al hambre y al vagabundeo. Suelen deambular por las calles, miran con ojos de pena a los niñitos que salen de los McDonalds, esperan la luz verde de los semáforos y supervisan los desfiles públicos. Cuando alguien se siente perturbado por su presencia, simplemente les espeta: ¡anda a echarte mierda! Llamarse Cholo es como llamarse Juan en humano, Pillín equivale a Pedro, Boby a Luis y Terry a José.
Pero tal como entre los humanos, entre los perros también hay estrictas divisiones sociales. Los quiltros son la clase baja, la indigente, la despojada, el pueblo explotado que sobrevive lamiendo huesitos roídos.
La clase media son los perros guardianes, los enormes rotwaillers, los pitbull, los bulldog, los pastores alemanes y los doberman. Ellos prestan un servicio de seguridad a los aspiracionistas que compran enormes viviendas que casi no tienen patio, y a los delincuentes que deben disuadir a los otros delincuentes de las quitadas de droga. Cuando el aspiracionista pierde el trabajo o cae en desgracia, simplemente se deshace del perro dejándolo tirado en caminos rurales. Los delincuentes se los comen asados.
La aristocracia perruna corresponde a los afganos, chow chow, poodles, beagles y hasta los chihuahua. Suelen llamarse Edgard, Sophie o Elizabeth, y tienen privilegios incluso superiores a los de un parlamentario (lo cual parece imposible) La aristocracia perruna ha ido creciendo a la par que los nuevos ricos. En Chile se les llama "perros de raza" y confieren estatus a quien los ostente en los parques. Decir “de raza” basta para henchir el corazón y el culo de sus dueños. Poseer un perro de raza implica generar condiciones ambientales y alimenticias para el óptimo desenvolvimiento de los músculos e intestinos del can.
De esta forma, semanalmente tienen horas reservadas para baño, peinado, masaje, limaje de uñas y psicólogo en exclusivos centros de belleza canina. Conjuntamente, se le compran accesorios deportivos para que el señor perro haga deporte en casa, bien manufacturadas vestimentas para cubrir sus lomos, huesos artificiales sin grasa para sus dientes, juguetes para que no se aburra y comida especial para que su mierda no huela a mierda.
Por lo demás, el árbol genealógico del perro (inventado o legítimo) debe demostrar con rotunda claridad que en algún momento tuvo antepasados nobles que ladraban en inglés. Por esto, resulta natural que el perro se siente cuando le dicen ¡Sit down!


Pillín, Cholo, Boby e Terry sono i soliti nomi dei cani bastardi nati in Cile. Sono i cosiddetti meticci. Sopravvissuti a mille litigi di strada, abituati al freddo, alla fame e al vagabondaggio. Sono soliti deambulare per le strade, guardando con occhi di pena i bambini che escono dai McDonalds, aspettano la luce verde dei semafori e vigilano le sfilate pubbliche. Quando qualcuno si sente disturbato dalla loro presenza, semplicemente li infilza: vattene via stronzo! Chiamarsi Cholo è come chiamarsi Giovanni in chiave umana, Pillín equivale a Pietro, Boby a Luigi e Terry a Giuseppe.
Ma, come tra gli esseri umani, anche tra i cani ci sono rigorose divisioni sociali. I bastardi sono la classe bassa, quella indigente, quella diseredata, il popolo sfruttato che sopravvive leccando piccoli ossi rosicchiati.
La classe media sono i cani da guardia, gli enormi rotwaillers, i pitbull, i bulldog, i pastori tedeschi e i dobermann. Essi prestano un servizio di sicurezza gli aspiranti che comprano enormi case che non hanno quasi cortile, e ai delinquenti che devono dissuadere altri delinquenti dai furti di droga. Quando il concorrente perde il lavoro o cade in disgrazia, semplicemente si libera del cane abbandonandolo sulle strade rurali. I delinquenti se li mangiano arrosto.
L'aristocrazia canina corrisponde agli afgani, chow chow, barboncini, beagles e perfino i chihuahua. Si chiamano solitamente Edgard, Sophie o Elizabeth, e hanno privilegi anche superiori a quelli di un parlamentare (che sembra impossibile). L'aristocrazia canina è cresciuta alla pari dei nuovi ricchi. In Cile li si definisce "cani di razza" e conferiscono status a chi li ostenta nei parchi. Dire "razza" è sufficiente per gonfiare il cuore e il culo dei suoi rispettivi padroni. Possedere un cane di razza comporta la creazione di condizioni ambientali e nutrizionali per lo sviluppo ottimale dei muscoli e intestini del cane.
Inoltre, hanno ore settimanali riservate per il bagno, pettinatura, massaggio, limatura di unghie e psicologo, in centri esclusivi di bellezza canina. Congiuntamente, gli si compra accessori sportivi perché il signor cane faccia sport in casa, vestimenta ben rifinite per coprire i suoi lombi, ossi artificiali senza grasso per i suoi denti, giocattoli perché non si annoi e cibo speciale per evitare che la sua merda puzzi di merda.


Inoltre, l’albero genealogico del cane di razza (inventato o legittimo) deve dimostrare con evidente chiarezza che una volta aveva antenati nobili che abbaiavano in inglese. Pertanto, risulta naturale che il cane si sieda quando gli dicono, sit down!