mercoledì 29 novembre 2017

Me gustas cuando callas/Mi piaci quando taci

de/di Pablo Neruda
(trad. Marcela Filippi)

Me gustas cuando callas porque estás como ausente, y me oyes desde lejos, y mi voz no te toca. Parece que los ojos se te hubieran volado y parece que un beso te cerrara la boca.
Como todas las cosas están llenas de mi alma emerges de las cosas, llena del alma mía. Mariposa de sueño, te pareces a mi alma, y te pareces a la palabra melancolía.
Me gustas cuando callas y estás como distante. Y estás como quejándote, mariposa en arrullo. Y me oyes desde lejos, y mi voz no te alcanza: déjame que me calle con el silencio tuyo.
Déjame que te hable también con tu silencio claro como una lámpara, simple como un anillo. Eres como la noche, callada y constelada. Tu silencio es de estrella, tan lejano y sencillo.
Me gustas cuando callas porque estás como ausente. Distante y dolorosa como si hubieras muerto. Una palabra entonces, una sonrisa bastan. Y estoy alegre, alegre de que no sea cierto.


Mi piaci quando taci perché sei come assente
e mi ascolti da lontano e la mia voce non ti tocca.
Sembra che gli occhi ti sian volati via
e sembra che un bacio serrasse la tua bocca.

Poiché tutte le cose sono piene della mia anima
emergi dalle cose, piena dell’anima mia.
Farfalla di sogno, assomigli alla mia anima,
e somigli alla parola malinconia.

Mi piaci quando taci e sei come distante.
E sembri lamentarti, farfalla in brusio.
E mi ascolti da lontano, e la mia voce non ti giunge:
lasciami tacere col silenzio tuo.

Lascia che ti parli anche col tuo silenzio
chiaro come una lampada, semplice come un anello.
Sei come la notte, silenziosa e costellata.
Il tuo silenzio è di stella, così lontano e semplice.

Mi piaci quando taci perché sei come assente.
Distante e dolorosa come se fossi morta.
Poi una parola, un sorriso bastano.
E sono felice, felice che non sia vero.

martedì 28 novembre 2017

SILVIA PLATH SE DIRIGE A LA MUERTE/SILVIA PLATH SI RIVOLGE ALLA MORTE

(trad. Marcela Filippi)

Silvia Plath se dirige a la muerte. Silvia Plath no está viva cuando se dirige a la muerte. No está viva y lo sabe. Alguien la había matado antes. ¿Quién, cuándo, cómo? Su lejana memoria no lo encuentra. Silvia Plath se dirige a la muerte y le dice : No te culpo, vives de unos y de otros. Deja el vaso de leche tibia para sus hijos y los contempla muerta.

Silvia Plath si rivolge alla morte.
Silvia Plath non è viva
cuando si rivolge alla morte.
Non è viva e lo sa.
Qualcuno l’aveva uccisa prima.
Chi, quando, come?
La sua lontana memoria non lo trova.
Silvia Plath si rivolge alla morte
e le dice: Non t’incolpo,
vivi degli uni e degli altri.
Lascia il bicchiere di latte
tiepido per i suoi figli
e da morta li contempla.

sabato 25 novembre 2017

Ritual de mis piernas/Rituale delle mie gambe

de/di Pablo Neruda
(trad. M.F.P.)

Largamente he permanecido mirando mis largas piernas,
con ternura infinita y curiosa, con mi acostumbrada pasión,
como si hubieran sido las piernas de una mujer divina
profundamente sumida en el abismo de mi tórax;
y es que, en verdad, cuando el tiempo, el tiempo pasa,
sobre la tierra, sobre el techo, sobre mi impura cabeza,
y pasa, el tiempo pasa, y en mi lecho no siento de noche que
una mujer está respirando, durmiendo y a mi lado,
entonces, extrañas, oscuras cosas toman el lugar de la ausente,
viciosos, melancólicos pensamientos
siembran pesadas posibilidades en mi dormitorio,
y así, pues, miro mis piernas como si pertenecieran a otro cuerpo,
y fuerte y dulcemente estuvieran pegadas a mis entrañas.
Como tallos o femeninas, adorables cosas,
desde las rodillas suben, cilíndricas y espesas,
con turbado y compacto material de existencia:
como brutales, gruesos brazos de diosa,
como árboles monstruosamente vestidos de seres humanos,
como fatales, inmensos labios sedientos y tranquilos,
son allí la mejor parte de mi cuerpo:
lo enteramente substancial, sin complicado contenido
de sentido o tráqueas o intestinos o ganglios:
nada, sino lo puro, lo dulce y espeso de mi propia vida,
nada, sino la forma y el volumen existiendo,
guardando la vida, sin embargo, de una manera completa.

Las gentes cruzan en el mundo en la actualidad
sin apenas recordar que poseen un cuerpo y en él la vida,
y hay miedo, hay miedo en el mundo de las palabras que designan el cuerpo,
y se habla favorablemente de la ropa,
de pantalones es posible hablar, de trajes,
y de ropa interior de mujer (de medias y ligas de ‘señora’),
como si por las calles fueran las prendas y los trajes vacíos por completo
y un oscuro y obsceno guardarropas ocupara el mundo.

Tienen existencia los trajes, color, forma, designio,
y profundo lugar en nuestros mitos, demasiado lugar,
demasiados muebles y demasiadas habitaciones hay en el mundo,
y mi cuerpo vive entre y bajo tantas cosas abatido,
con un pensamiento fijo de esclavitud y de cadenas.

Bueno, mis rodillas, como nudos,
particulares, funcionarios, evidentes,
separan las mitades de mis piernas en forma seca:
y en realidad dos mundos diferentes, dos sexos diferentes
no son tan diferentes como las dos mitades de mis piernas.

Desde la rodilla hasta el pie una forma dura,
mineral, fríamente útil aparece,
una criatura de hueso y persistencia,
y los tobillos no son ya sino el propósito desnudo,
la exactitud y lo necesario dispuestos en definitiva.

Sin sensualidad, cortas y duras, y masculinas,
son allí mis piernas, y dotadas
de grupos musculares como animales complementarios,
y allí también una vida, una sólida, sutil, aguda vida
sin temblar permanece, aguardando y actuando.

En mis pies cosquillosos,
y duros como el sol, y abiertos como flores,
y perpetuos, magníficos soldados
en la guerra gris del espacio,
todo termina, la vida termina definitivamente en mis pies,
lo extranjero y lo hostil allí comienza,
los nombres del mundo, lo fronterizo y lo remoto,
lo sustantivo y lo adjetivo que no caben en mi corazón,
con densa y fría constancia allí se originan.

Siempre,
productos manufacturados, medias, zapatos,
o simplemente aire infinito,
habrá entre mis pies y la tierra
extremando lo aislado y lo solitario de mi ser,
algo tenazmente supuesto entre mi vida y la tierra,
algo abiertamente invencible y enemigo.



A lungo sono rimasto a guardare le mie lunghe gambe
con infinita e curiosa tenerezza, con la mia solita passione,
come se fossero state le gambe di una donna divina
profondamente assorta nell'abisso del mio torace:
e, in verità, quando il tempo, il tempo passa,
sulla terra, sul tetto, sulla mia impura testa,
e passa, il tempo passa, e nel mio letto non sento di notte che
una donna respira, dorme nuda e accanto a me,
allora, strane, oscure cose prendono il posto dell'assente,
viziosi, malinconici pensieri
seminano pesanti possibilità nella mia stanza,
e cosi, dunque, guardo le mie gambe come se appartenessero a un altro corpo
e con forza e dolcezza fossero attaccate alle mie viscere.
Simili a steli o femminili adorabili cose,
dalle ginocchia salgono, cilindriche e sode,
con turbato e compatto materiale di esistenza:
come fantastiche, grosse braccia di dea,
come alberi mostruosamente vestiti da esseri umani,
come fatali, immense labbra assetate e tranquille,
è lì la miglior parte del mio corpo:
quel che è del tutto sostanziale, senza complicato contenuto
di sensi o trachee o intestini o gangli:
nient'altro che il puro, il dolce e compatto della mia propria vita,
nient'altro, oltre la forma e il volume esistenti,
custodendo la vita, malgrado tutto, in maniera completa.

La gente attraversa il mondo attualmente
senza quasi neanche ricordare di possedere un corpo ed in esso la vita,
e c'è paura nel mondo, c'è paura nel mondo delle parole che designano il corpo,
e si parla favorevolmente dell'abbigliamento,
di pantaloni è possibile parlare, di vestiti,
e di biancheria intima da donna (di calze e giarrettiere per «signora»),
come se per le strade camminassero gli indumenti e abiti del tutto vuoti
e un oscuro ed osceno guardaroba occupasse il mondo.

Hanno esistenza gli abiti, colore, forma, disegno
e profondo spazio nei nostri miti, troppo spazio,
troppi mobili e troppe stanze ci sono nel mondo,
e il mio corpo vive tra e sotto tante cose abbattuto,
con un pensiero fisso di schiavitù e di catene.

Ebbene, le mie ginocchia, come nodi,
individui, funzionari, evidenti,
separano le metà delle mie gambe in modo netto:
e, in realtà, due mondi differenti, due sessi differenti
non son così diversi come le due metà delle mie gambe.

Dal ginocchio al piede una forma dura,
minerale, freddamente utile sembra,
una creatura di ossa e persistenza,
e le caviglie  non sono altro che il proposito nudo proposito,
l'esattezza e il necessario definitivamente disposto.

Prive di sensualità, corte e dure, e mascoline,
ecco lì le mie gambe, e dotate
di gruppi muscolari come di animali complementari,
e anche lì una vita, una solida, sottile, acuta vita
senza tremare rimane, aspettando e agendo.

Nei miei piedi solleticosi,
e duri come il sole, e aperti come fiori,
e perpetui, magnifici soldati
nella guerra grigia dello spazio,
tutto finisce, la vita finisce definitivamente nei miei piedi,
l'altrui e l'ostile è lì che inizia,
i nomi del mondo, ciò che è confine e remoto,
il sostantivo e l'aggettivo che non entra nel mio cuore,
con densa e fredda costanza si originano lì.

Sempre,
prodotti fabbricati, calze, scarpe,
o semplicemente aria infinita,
ci sarà tra i miei piedi e la terra
stremando quel che è isolato e solitario del mio essere,
qualcosa tenacemente supposto tra la mia vita e la terra,
qualcosa di palesemente invincibile e nemico.

giovedì 23 novembre 2017

Non cercavo la fine, non era la morte/No buscaba el final, no era la muerte

di/de Antonio Santori
(trad. Marcela Filippi)

Non cercavo la fine, non era la morte
l’improvvisa atmosfera, cercavo la ciurma rarefatta
e il vento della creazione, il niente che si scopre
dietro la vita, dietro l’amore.
Perché ci sono spazi enormi da riempire
che sono spazi da inghiottire. Ci sono luoghi che dormono,
come strumenti in attesa dentro le casse,
luoghi di carne, di mascelle spalancate,
luoghi di sgomenti e di resa, luoghi dell’amore.
Ma sempre, sempre, dietro gli occhi di ognuno
ci sono gli occhi di un altro che guardano la fine:
le nasse ammonticchiate, prossime al sussulto,
lo stupore dentro l’acqua delle ostriche
invasate dalla luce, nostro identico culto
sotto le stelle.
Perché ci sono occhi da respingere
che sono occhi da accogliere.
Ci sono volti che nascono sotto i nostri corpi
e si nascondono tra le coperte
e altri disperati che si confessano e si dileguano,
dolcemente. E sempre, sempre, ogni gesto del chiarore
è un gesto dell’ombra, come lo sguardo separato
delle donne, quando aprono le gambe, lentamente.
Tutto si divincola tutto è in fuga.
Nessuno può parlare di ricordi.
La mano fasciata da un fazzoletto gigante,
legato in fretta, il soffio forte della nascita
l’ultimo giorno di dicembre, il respiro
di mio padre nella morte vigilata,
una salvietta sporca in un ristorante.
Nessuno può parlare di ricordi.
Rimane solo il senso di uno smarrimento,
l’incredibile rifugio delle cose
che crediamo di spostare, il senso della fine,
il vero sentimento.

No buscaba el final, no era la muerte
la improvisa atmósfera, buscaba la chusma enrarecida
y el viento de la creación, la nada que se descubre
detrás de la vida, detrás del amor.
Porque hay espacios enormes para llenar
que son espacios para engullir. Hay lugares que duermen,
como instrumentos a la espera dentro de las cajas,
lugares de carne, de mandíbulas bien abiertas,
lugares de consternación y de rendición, lugares del amor.
Mas siempre, siempre, detrás de los ojos de cada uno
están los ojos que miran el final:
las nasas amontonadas, próximas al estremecimiento,
el estupor en el agua de las ostras
poseídas por la luz, nuestro idéntico culto
bajo las estrellas.
Porque hay ojos que rechazar
que son ojos para acoger.
Hay ojos que nacen bajo nuestros cuerpos
y se esconden entre las mantas
y otros desesperados que se confiesan y desaparecen,
dulcemente.
Y siempre, siempre, cada gesto de la claridad
es un gesto de la sombra, como la mirada separada
de las mujeres, cuando abren las piernas, lentamente.
Todo se sacude, todo está en huida.
Nadie puede hablar de recuerdos.
La mano vendada por un pañuelo gigante,
amarrado deprisa, el fuerte soplo del nacimiento
el último día de diciembre, la respiración
de mi padre en la muerte vigilada,
una servilleta sucia en un restaurante.
Nadie puede hablar de recuerdos.
Sólo queda una sensación de desconcierto,
el increíble refugio de las cosas
que creemos apartar, la sensación del final,
el verdadero sentimiento.

El mar/Il mare

de/di Jorge Luis Borges
(trad. Marcela Filippi)

Antes que el sueño (o el terror) tejiera mitologías y cosmogonías, antes que el tiempo se acuñara en días, el mar, el siempre mar, ya estaba y era.
¿Quién es el mar? ¿Quién es aquel violento y antiguo ser que roe los pilares de la tierra y es uno y muchos mares y abismo y resplandor y azar y viento?
Quien lo mira lo ve por vez primera, siempre. Con el asombro que las cosas elementales dejan, las hermosas
tardes, la luna, el fuego de una hoguera. ¿Quién es el mar, quién soy? Lo sabré el día ulterior que sucede a la agonía.

Prima che il sogno (o il terrore) ordisse
mitologie e cosmogonie,
prima che il tempo si forgiasse in giorni,
il mare, il mare sempre, già c’era ed era.

Chi è il mare? Chi è quel violento
e antico essere che erode i pilastri
della terra ed è uno e molti mari
e abisso e splendore e caso e vento?

Chi lo guarda lo vede per la prima volta,
sempre. Con lo stupore delle cose
elementari lasciano, le bellissime

sere, la luna, il fuoco di un falò.
Chi è il mare, chi sono? Lo saprò il giorno
ulteriore che succede all'agonia.

Certeza/Certezza

(trad. Marcela Filippi)

Tengo la certeza
de que mi abuelo Pedro se quedó dormido
y me lo robaron barcos piratas

Sabido es que estos bárbaros
aglutinan fortunas,
trofeos, tesoros...


Ho la certezza
che mio nonno si è addormentato
e mi è stato rubato da navi pirata

E' noto che questi barbari
assommano fortune
trofei, tesori...