de/di Eugenio Montejo
(Trad. Marcela Filippi)
Esta es la tierra de los míos, que duermen, que no
duermen,
largo valle de cañas frente a un lago,
con campanas cubiertas de siglos y polvo
que repiten de noche los gallos fantasmas.
Estoy a veinte años de mi vida,
no voy a nacer ahora que hay peste en el pueblo,
las carretas se cargan de cuerpos y parten,
son pocas las zanjas abiertas,
las campanas cansadas de doblar
bajan y cavan.
Puedo aguardar, voy a nacer muy lejos de este lago,
de sus miasmas,
mi padre partirá con los que queden,
lo esperaré más adelante.
Ahora soy esta luz que duerme, que no duerme,
atisbo por el hueco de los muros,
los caballos se atascan en fango y prosiguen,
miro la tinta que anota los nombres,
la caligrafía salvaje que imita los pastos.
La peste pasará, los libros en el tiempo amarillo
seguirán tras las hojas de los árboles.
Palpo el temblor de llamas en las velas
cuando las procesiones recorren las calles.
No he de nacer aquí,
hay cruces de zábila en las puertas que no quieren que nazca,
queda mucho dolor en las casas de barro.
Puedo aguardar, estoy a veinte años de mi vida,
soy el futuro que duerme, que no duerme,
la peste me privará de voces que son mías,
tendré que reinventar cada ademán, cada palabra.
Ahora soy esta luz al fondo de sus ojos,
ya naceré después, llevo escrita mi fecha,
estoy aquí con ellos hasta que se despidan,
sin que puedan mirarme me detengo:
quiero cerrarles suavemente los párpados.
Questa è la terra dei miei, che dormono, che non
dormono
lunga valle di canne di fronte a un lago,
con campane coperte da secoli e polvere
che i galli fantasma ripetono di notte.
Sono a vent’anni dalla mia vita,
non nascerò ora che c'è peste nel villaggio,
le carrette sono caricate da corpi e partono,
sono poche le fosse aperte,
le campane stanche di suonare
scendono e scavano.
Posso attendere, nascerò molto lontano da questo lago,
dai suoi miasmi,
mio padre partirà con quelli che rimarranno,
lo aspetterò più avanti.
Ora sono questa luce che dorme, che non dorme,
scorgo attraverso la cavità dei muri,
i cavalli si incagliano nel fango e proseguono,
guardo l'inchiostro che annota i nomi,
la calligrafia selvaggia che imita l’erba.
La peste passerà, i libri nel tempo giallo
seguiranno dietro le foglie degli alberi.
Sento il tremolio di fiamme nei ceri
quando le processioni percorrono le strade.
Non dovrò nascere qui,
ci sono croci di aloe sulle porte che non vogliono che
io nasca,
molto dolore rimane nelle case di fango.
Posso attendere, sono a vent’anni dalla mia vita,
sono il futuro che dorme, che non dorme,
la peste mi priverà di voci che sono mie,
dovrò reinventare ogni gesto, ogni parola.
Ora sono questa luce in fondo ai loro occhi,
nascerò dopo, porto scritta la mia data,
sono qui con loro fino a quando si congederanno,
senza che possano guardarmi mi fermo:
voglio loro chiudere delicatamente le palpebre.
Alcune delucidazioni sulla poesia GÜIGÜE 1918:
GÜIGÜE nel 1918 era un paesino, oggi cittadina, dello stato di Carabobo della provincia venezuelana, la cui capitale è Valencia, città molto importante del centro nord del Venezuela, dove è cresciuto Eugenio Montejo.
Nel titolo della poesia, 1918, sta ad indicare la terribile influenza spagnola.
Nel 1918 si formano in Venezuela, a Caracas anche dei gruppi letterari e artistici molto importanti che daranno origine a una generazione letteraria che prenderà il nome Generazione del '18, della quale farà parte Fernando Paz Castillo, uno dei grandi poeti venezuelani del XX sec., José Antonio Ramos Sucre e altri. Ma il referente di questa poesia di Montejo non è letterario, bensì l'influenza spagnola.
La poesia:
GÜIGÜE è la terra degli antenati del poeta che provenivano dalle isole Canarie e arrivarono lì per coltivare la terra. Questo intende Montejo quando dice in un verso questa è la terra dei miei. Molti erano morti, altri erano vivi in quella data, e lottavano contro l'influenza spagnola. C'è il passato e il presente, di quell'anno.
Montejo descrive le coltivazioni di canne da zucchero davanti a un lago che forma parte del paesaggio. E' il lago di Valencia che attraversa moltissimi villaggi e città. E' il secondo lago del Venezuela. Poi cita le campane di GÜIGÜE, molto antiche, portate da un sacerdote spagnolo nel XVI o XVII sec.
La voce che parla nella poesia è quella del poeta che si sdoppia. Ritorna al passato dei suoi antenati. Dà vita alla loro e alla propria memoria, non nascerò ora che c'è peste nel villaggi. C'è poi la descrizione della distruzione causata dalla peste. Le carrette erano i carri funebri ricoperti di corpi. Le campane stanche di suonare a morte sono le immagini di un tempo da lui mai vissuto. Il poeta che nascerà vent'anni dopo, cioè nel 1938 a Caracas, entra nella poesia e racconta la sua famiglia, come se lui fosse presente. Montejo gioca col tempo e nel tempo, ne inventa uno in cui lui può incontrare chi non ha mai potuto conoscere, perché la spagnola li aveva portati via prima che nascesse. Si serve dello strumento della poesia per vivere la storia dei suoi antenati.
P.S.:le spiegazioni, così come ho scritto sopra, mi sono state fornite dal Prof. Freddy Castillo Castellanos
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