mercoledì 10 luglio 2019

ELOGIO DE LA SOMBRA/ELOGIO DELL'OMBRA

de/di Jorge Luis Borges
(trad. Marcela Filippi Plaza)
La vejez (tal es el nombre que los otros le dan)
puede ser el tiempo de nuestra dicha.
El animal ha muerto o casi ha muerto.
Quedan el hombre y su alma.
Vivo entre formas luminosas y vagas
que no son aún la tiniebla.
Buenos Aires,
que antes se desgarraba en arrabales
hacia la llanura incesante,
ha vuelto a ser la Recoleta, el Retiro,
las borrosas calles del Once
y las precarias casas viejas
que aún llamamos el Sur.
Siempre en mi vida fueron demasiadas las cosas;
Demócrito de Abdera se arrancó los ojos para pensar;
el tiempo ha sido mi Demócrito.
Esta penumbra es lenta y no duele;
fluye por un manso declive
y se parece a la eternidad.
Mis amigos no tienen cara,
las mujeres son lo que fueron hace ya tantos años,
las esquinas pueden ser otras,
no hay letras en las páginas de los libros.
Todo esto debería atemorizarme,
pero es una dulzura, un regreso.
De las generaciones de los textos que hay en la tierra
sólo habré leído unos pocos,
los que sigo leyendo en la memoria,
leyendo y transformando.
Del Sur, del Este, del Oeste, del Norte,
convergen los caminos que me han traído
a mi secreto centro.
Esos caminos fueron ecos y pasos,
mujeres, hombres, agonías, resurrecciones,
días y noches,
entresueños y sueños,
cada ínfimo instante del ayer
y de los ayeres del mundo,
la firme espada del danés y la luna del persa,
los actos de los muertos,
el compartido amor, las palabras,
Emerson y la nieve y tantas cosas.
Ahora puedo olvidarlas. Llego a mi centro,
a mi álgebra y mi clave,
a mi espejo.
Pronto sabré quién soy.

La vecchiaia (tale è il nome che gli altri gli danno)
può essere il tempo della nostra gioia.
L’animale è morto o è quasi morto.
Restano l'uomo e la sua anima.
Vivo tra forme luminose e vaghe
che ancora non sono tenebra.
Buenos Aires,
che un tempo si lacerava in sobborghi
verso la pianura incessante,
è ritornata ad essere la Recoleta, il Retiro,
le annebbiate strade dell’Once
e le precarie case vecchie
che ancora chiamiamo il Sud.
Nella mia vita sono sempre state troppe le cose;
Democrito di Abder si strappò gli occhi per pensare;
il tempo è stato il mio Democrito.
Questa penombra è lenta e non fa male;
scorre lungo un dolce declivio
e somiglia all’eternità.
I miei amici non hanno volto,
le donne sono ciò che furono molti anni fa,
gli angoli possono essere altri,
non ci sono tante lettere nelle pagine dei libri.
Tutto questo dovrebbe impaurirmi,
ma è una dolcezza, un ritorno.
Dalle generazioni dei testi che ci sono sulla terra
ne avrò letti solo alcuni,
quelli che continuo a leggere nella memoria,
leggendo e trasformando.
Dal Sud, dall’Est, dall’Ovest, dal Nord,
convergono le strade che mi hanno portato
al mio centro segreto.
Quelle strade furono echi e passi,
donne, uomini, agonie e risurrezioni,
giorni e notti,
dormiveglie e sogni,
ogni infimo istante dello ieri
e degli ieri del mondo,
la solida spada del danese e la luna del persiano,
gli atti dei morti,
l’amore condiviso, le parole,
Emerson e la neve, e tante cose.
Ora posso dimenticarle. Arrivo al mio centro,
alla mia algebra e alla mia chiave,
al mio specchio.
Presto saprò chi sono.

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